Qualcuno bussò alla porta, poi entrò con passo deciso in casa: era il vampiro che Honor non aveva mai visto senza gli occhiali da sole. Indossava un altro completo lucido, questa volta la camicia di un grigio canna di fucile. «Eccoti qua, Sorrow.» Un commento quasi gentile, con una punta di scherno affilata come un rasoio. «A quanto pare, devo proprio tenerti d’occhio meglio.» Mentre rinfilava la pistola nella fondina ascellare, Honor lo guardò levarsi gli occhiali da sole. Gli occhi erano di un verde intenso e dal taglio verticale, simili a quelli di una vipera, «Okay, questa non me l’aspettavo» disse, senza combattere l’impulso di fissarlo. Erano veri, ragion per cui Venom indossava quegli occhiali da sole, ma, pur sapendolo, il cervello di Honor faticava a crederci, erano troppo strani. Un sorriso lento, la pelle color cannella scura che emanava un calore in contrasto con gli occhi di una creatura dal sangue gelido. Tuttavia le parole che indirizzava a Sorrow erano spietate: «La prossima volta che sfuggirai alla tua guardia, ti troverò una bella sistemazione da qualche parte, in una cella. O magari preferisci una gabbia». La ragazza serrò forte le labbra. Poi gettò la tazza di caffè contro la testa del vampiro. «Va’ al diavolo, Venom.» Schivando il missile con un balzo, il vampiro sibilò come un rettile quando la tazza colpì il muro e finì in pezzi; lo spruzzo di caffè gli schizzò il completo impeccabile. In quell’istante in lui non c’era nulla di umano, era solo un predatore a caccia. Honor gli puntò contro la pistola ancor prima che si rialzasse. «Basta così», disse, rivolgendosi a entrambi. «Sorrow, pulisci quel casino. Venom, esci di qui.» Con le ciocche di capelli neri che gli ricadevano sul viso incredibilmente bello nella sua inquietante diversità, il vampiro le rivolse un ghigno. «Quel giocattolino non ti servirà a granché.» D’un tratto le si materializzò di fronte, con le dita lunghe e forti che in un batter di ciglio le si chiusero sopra il torace. Era troppo. Premette il grilletto. Il suono rimbombò in quello spazio chiuso, cui fece eco l’urlo di Sorrow. Venom crollò a terra, afferrandosi una coscia. Rinfilata la pistola nella fondina, Honor riprese la tazza di caffè, sorpresa dalla propria calma. «Non mi devi toccare. Mai.» Il vampiro fece una smorfia, si tirò su a sedere appoggiandosi contro il muro, la mano sulla coscia da cui pompava sangue a una velocità che per un mortale avrebbe significato la morte. «Sai quanto costa questo cazzo di completo?» «Voglio imparare a farlo anch’io», disse Sorrow, fissando Honor. «Voglio imparare a difendermi.» Un grugnito da parte del vampiro, le ferite che stavano già cominciando a rimarginarsi. «Ho sentito, gattina, che oggi sei già riuscita a difenderti alla grande.» Sorrow riempì l’aria con un ringhio. «Perché non gli hai strappato via le palle prima di ammazzarlo?» disse Venom, meditabondo. «Gli avresti fatto un male cane.» Le labbra di Honor si curvarono in un mezzo sorriso. «Buon consiglio.» Appoggiò il caffè e guardò Sorrow mettersi a pulire il casino che aveva combinato e lanciare occhiate di fuoco a Venom ogni volta che lui raccoglieva un coccio e glielo passava. «Non è stato un atto cosciente», disse la giovane dopo un po’. «Non so come ho fatto, sono come una bambina stupida.» Nessuna donna dovrebbe mai essere indifesa. «T’insegnerò io», decise Honor, senza stare troppo a rifletterci. Venom si rialzò a fatica, spostando il peso del corpo sulla gamba sana. «Sicura di voler perdere tempo con lei? La nostra Sorrow potrebbe avere ancora poco da vivere.» Buttati nella pattumiera i cocci rotti raccolti, Sorrow lanciò a Venom un’occhiata inquietante, con quella sottile linea verde che scintillava intorno al marrone scuro delle iridi. «Un giorno ti spezzerò il collo», gli disse, la voce serena come un lago d’alta montagna. «Poi ti staccherò la testa con un seghetto, prendendomi tutto il tempo necessario.» Il ghigno di Venom gli arricciò le guance. «Sapevo che ce l’avevi dentro,gattina.»